Racconto di Filippo Falcioni

Da un racconto di Filippo Falcioni (detto Pippo) del 20 ottobre 1987 pubblicato su un opuscolo edito dalle Edizioni accademia città di Roma “Il Machiavello” nel 1990

Il mattino del 13 gennaio 1915 ero nella mia stalla in località Casevecchie, a stramare le mie bestie: due vacche ed una cavalla. Avevamo anche ottanta pecore in un’altra stalla in località Stallescure. Andavo quasi sempre io alla stalla, di mattina, ragazzo di quattordici anni, perché mio padre era malato di asma e tosse. Verso le ore sette, se ricordo bene, improvvisamente sentii un forte fragore: la cavalla scalpitava, il pavimento sussultava e ondulava. Preso da grande paura, corsi fuori e vidi Luce Raffaelluccia fu Luigi, anche lei uscita dalla sua stalla di fronte alla mia, che mi faceva segno con la mano verso la parte storica del paese di fronte, e, nello stesso tempo emise un forte grido e piangeva. Come ragazzo poco o nulla esperto di terremoti, impressionato, guardai anch’io, e vidi meravigliato e stupito, che la parte storica del paese era un ammasso di macerie e a mano a mano che la grande nube di polvere diradava, spazzata via dalla forte tramontana, vi apparivano punte di travi più o meno lunghe.

La parte storica del paese sorgeva su una collina, che dal lato nord era ed è tutt’ora molto scoscesa; mentre le stalle erano tutte situate nella zona della fontana Valle Rio, sparpagliate, come sono tutt’oggi. Quasi nessuna delle stalle fu diroccata dal movimento sismico; solamente qualcuna lesionata.

Santa Anatolia era l’unico paese del Cicolano fornita di fognature. Aveva una planimetria ben precisa: una via centrale detta La Terra, che partiva da piazza S. Nicola lunga circa cento metri, intersecata da cinque vicoletti, le cui fognature collegate con quella centrale situata sotto via La Terra.

Il giorno del terremoto era fiera a Magliano de’ Marsi: molti abitanti si erano alzati presto per condurre il bestiame alla fiera; anzi, tanti erano già sulla via, costretti, poi dal terremoto a tornare subito in paese.

Ritornando all’atto del terremoto, quelli che erano nelle stalle correvano tutti verso la parte terremotata per portare aiuto ai loro familiari.

Corsi anch’io e presi l’accorciatoia per la viottola La Costa. Giunto alla casa di Di Gasbarro Giovanni, diroccata fino al pavimento del primo piano, sul quale Giovanni, già vecchio, nudo con addosso la sola camicia, tutto impolverato, andava avanti e indietro sul pavimento e ripeteva in continuazione: Poreglie mi, poreglie mi, come faccio mo…

La parete della casa verso Valle Rio era rimasta intera: in essa vi era un balconcino con una piccola ringhiera di ferro: lì stava Di Cristofano Mariassunta, ragazza di circa vent’anni, a tre metri dal suolo, che gridava e chiedeva aiuto: Curri Felippu! Curri , Felippu, aiutami… In quel mentre arrivò Peppinuccio, figlio di Giovanni, tutto ansante dalla corsa che aveva fatta, mi guardò ansioso e mi disse: Io vado da mio padre, tu vedi di aiutare quella ragazza….

La famiglia Di Gasbarro aveva una bottega di generi alimentari. La ragazza era andata a comprare il pane: la bottega però non era ancora aperta e la moglie di Giovanni l’aveva fatta salire in cucina, al primo piano e fatta sedere vicino al focolare. In quell’istante avvenne la scossa di terremoto. La ragazza, sorpresa, corse al balconcino per accertarsi di quel rumore insolito, e mentre guardava fuori, la casa crollò, e lei rimase là, attaccata alla ringhiera.

Io andai dalla ragazza che strillava e piangeva, e le dissi: Stai calma, adesso vedrò come farti scendere…. In quell’istante una nuova scossa, le fece cadere un pezzo di mattone sul capo : presa da una forte paura, si appese alla ringhiera e si lasciò cadere. Si fece un po’ male, ma cosa non grave. L’aiutai e la presi per un braccio e andammo a prendere la strada del Trainello, per poter arrivare a piazza S.Nicola, essendo per le altre strade impossibile passare.

A piazza S. Nicola era uno spettacolo orrendo: quelli che erano potuti fuggire e mettersi in salvo, sanguinanti, impolverati, con macchie violacee sul viso e alle mani, qualcuno nudo, coperto con un lenzuolo, altri con una coperta e qualche altro seminudo: Lanciotti Luigione avvolto con una imbottita e con la faccia macchiata di sangue, Luce Sinibaldo ferito in più parti del corpo e seminudo, imbrattato di sangue sulla faccia e mani e sui calzoni, dalla paura e dal freddo non era più capace di parlare.

I feriti erano tanti. Tutti si radunavano a Soprell’ara (il piazzale vicino alla fontana dell’acqua santa) dove furono accesi i fuochi da alcuni soccorritori per farli scaldare, perché il freddo era eccessivo, dovuto alla gelata ed alla forte tramontana.

Inoltrandomi poi insieme ad altri soccorritori per via La Terra, giunto alla casa De Amicis, in una finestrella del pian terreno De Amicis Annachiara e sua sorella Virginia chiedevano aiuto con ripetuti strilli. In quel momento arrivò De Amicis Luigi, un giovane alto e robusto, cugino delle due ragazze, con una pietra piegò i due ferri a croce della finestrella e le fece uscire.

Continuai per arrivare a casa mia in vicolo Falcioni, ma mi fu un po’ difficile, perché i soccorritori, scavando, buttavano pietre ed altro materiale con molta fretta, senza guardare dove andavano a finire.

Finalmente giunto a casa mia, i miei genitori, mio fratello Alessandro e mia sorella Caterina di appena un anno erano già vestitie subito li accompagnai temporaneamente a Soprell’ara, dove erano i fuochi.

La mia casa in un lato era crollata ed il resto molto lesionato. Ritornando a casa mia per prendere coperte ed altra roba, in piazza S. Nicola, Amanzi Giuseppe camminava qua e là a testa bassa e si lamentava: Povero me, o povero me ! Che disgrazia, che disgrazia !

Egli stava alla stalla a stramare le sua bestie ed era accorso come tutti gli altri, per poter salvare i suoi genitori, la sorella Annina e l’altra sorella sposata con quattro figli, Mariuccia, il cui marito Luce Pietro, detto Mazzante, era negli USA. Purtroppo i suoi familiari erano tutti morti sotto le macerie delle loro case interamente crollate.

De Santis Fedele era rimasto incastrato fra due travi ed altro materiale: i socorritori riuscirono a liberarlo dopo cinque giorni, ma due ore dopo morì, per le lunghe ed estenuanti sofferenze.

Peduzzi Antonio – detto Mastrantonio – e sua moglie Clotilde, ruzzolarono, avvolti nel loro letto, giù per il pendio in località Terrone, per ben cento e più metri fino a Valle Rio, uscendone incolumi, fortunatamente.

Complessivamente i morti, se ricordo bene, furono ottantasette.

Con legni vari e con le porte delle case crollate, subito cominciarono a sorgere baracchete un po’ dappertutto nelle vicinanze delle stalle. I più coraggiosi dormivano nei pagliai, gli altri si adattavano dentro baracchette provvisorie.

Dopo pochi giorni arrivarono i militari e distribuirono molte tende, ciascuna per quattro persone, e coperte.

I militari si erano accampati con le loro tende al prato detto Cimino, sopra la fontana Valle Rio: essi distribuivano ai terremotati il rancio e il pane.

Un giorno mentre i soldati distribuivano il rancio ai terremotati, arrivò un’automobile dalla quale scesero un uomo bassotto accompagnato da un ufficiale e da un maresciallo dei carabinieri.

Chi era quell’uomo bassotto? Era proprio il re Vittorio Emanuele III in in borghese.

Luce Antonio, detto Antonio di Gemma, uomo anziano lo riconobbe e lo salutò, levandosi il cappello: Buon giorno Maestà. Il re quando si accorse di essere riconosciuto, montò subito in macchina insieme alla scorta e ripartì.

Amanzi Augusto, aiutante di battaglia, in licenza per causa del terremoto, stava spesso insieme agli ufficiali e aiutava anche a distribuire il rancio ai terremotati.

Ho ritenuto opportuno scrivere questo racconto del giorno del terremoto (13/1/1915), per tramandare ai posteri, soprattutto di Sant’Anatolia, notizie utili.

Filippo Falcioni, addì 20 ottobre 1987.

Fonte:http://santanatolia.it/contributi/racconti-popolari/il-terremoto-del-1915

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *